[Premessa: Ciò che è scritto rappresenta una riflessione personale, frutto di un percorso di formazione nel campo dell’urbanistica e della partecipazione. Il tema è lo spazio pubblico. L’intento è quello di aprire un dibattito e una discussione sul modello di città a cui si aspira, di cui si parla troppo poco. Alcuni contenuti sono tratti dalla mia tesi di Master in progettazione e gestione di politiche e processi partecipativi, dal titolo “Società e spazio pubblico tra funzionalismo e complessità”, Relatore Mariano Sartore, Correlatrice Chiara Mazzoleni]
Nel primo decennio degli anni 2000 inizia la Grande Recessione: a seguito della bolla speculativa associata alla finanziarizzazione del settore immobiliare, si innescò una crisi che dagli Stati Uniti ebbe ripercussioni dirette nel vecchio continente[1].
Tra le conseguenze principali vi fu un profondo riequilibrio nel rapporto tra pubblico e privato, con una crescente liberalizzazione del mercato e il conseguente rafforzamento del ruolo degli attori privati nello sviluppo urbano. Si affermarono nuovi paradigmi nel rapporto tra mercato e città: «l’idea che la costruzione della città si possa fondare su dinamiche di appropriazione individualistica del plusvalore prodotto dalla collettività; l’idea che il mercato immobiliare possa essere finalizzato all’estrazione della rendita, piuttosto che al soddisfacimento dei fabbisogni individuali e collettivi; l’idea che il mercato sia in grado autonomamente di regolare i processi di produzione immobiliari e della città»[2].
In termini più semplici, il mercato è diventato “ciò che muove tutte le cose”: la pianificazione urbana ha progressivamente lasciato spazio a logiche di investimento e rendita, e la costruzione delle città è diventata un fatto puramente “a scopo di lucro”, mettendo nel dimenticatoio quel criterio quotidiano di ricerca della bellezza tipico della città europea.
Ne è testimone la fotografia di paesaggio. Guido Guidi, in Cinque Viaggi, indaga la città e le sue periferie, oggetto della trasformazione economica e sociale del periodo. In particolare, mostra quello spaccato della “città residuale”, quegli spazi tra i resti della civiltà rurale, le grandi infrastrutture ed i siti industriali.
In altri termini, lo “spazio tra le cose” non è oggetto di progetto, ma resta lì come scarto e al tempo stesso “spazio di attesa”, statico e informe. Sono interstizi urbani, spazi di margine con cui non si sa bene cosa fare, ma che restano aperti a un uso improvvisato.
Spesso diventano spazi di margine anche quelli frutto del reperimento dei così detti “standard urbanistici” (verde, parcheggi): per chi non lo sapesse, essi sono delle quantità, dettate dalla legge, che stabiliscono quanti spazi pubblici devono essere previsti quando si costruiscono nuovi edifici. L'idea è che chi costruisce debba anche contribuire a migliorare la qualità della vita in quell’area, offrendo spazi utili a tutti. La loro definizione è stato un passo importante per rendere le città più vivibili, soprattutto durante il grande boom edilizio del dopoguerra.
Il fatto è che essi non sono inseriti in un disegno unitario di spazio pubblico della città, ma vengono previsti in relazione al singolo progetto, senza essere parte di un’idea progettuale complessiva. Inoltre spesso gli standard urbanistici sono reperiti senza essere resi pienamente fruibili e senza un criterio vero di qualità. Basti pensare alla grande area verde del complesso commerciale “Le Cave” di Santa Maria degli Angeli, che rispetta gli standard ma è solo un’area di passaggio senza particolare qualità, eppure così prossima al centro della città.
Il nuovo ruolo predominante del mercato immobiliare ha contribuito all’urbanizzazione delle periferie e del periurbano e al crescente abbandono dei centri storici, insieme ad altri fattori, come i cambiamenti nelle abitudini abitative, l’assenza di politiche pubbliche efficaci per la residenza nei centri storici e la crescente attrattività turistica, che ha trasformato molte città in luoghi da visitare più che da abitare.
L’espansione urbana è spesso avvenuta per addizioni frammentarie, guidate dall’iniziativa privata, in assenza di una regia pubblica capace di garantire coerenza spaziale e funzionale, e di una visione urbanistica d’insieme. Questo ha prodotto un tessuto urbano disgregato, connesso unicamente dalla rete viaria automobilistica, che minimizza l’incontro, basato sulla rendita fondiaria più che sulla qualità urbana, dove lo spazio pubblico è residuale.
Di tutta risposta, possiamo constatare come alla scomparsa dello spazio pubblico si contrappone la reazione di una cura maggiore degli spazi privati.
Possiamo dedurre sinteticamente che questo processo di separazione spaziale e la rinuncia allo spazio pubblico sono tra le cause della disgregazione sociale odierna e della rottura di legami collettivi.
Il sociologo Simmel descrive la società contemporanea individuando come suo tratto fondamentale l’“individualismo di massa”, per cui ciascuno cerca di distinguersi dall’altro rispettando però i dettami della moda generalizzata, andando incontro a una tragedia: «essere necessariamente come tutti e, contemporaneamente, essere soprattutto e incomparabilmente se stessi»[3].
All’instabilità sociale si somma la crisi del disegno della città, proiettata all’esagerazione: le città moderne esprimono tutta la loro appartenenza al mondo capitalista, esponendo i grandi palinsesti pubblicitari, la loro perfezione funzionalista, l’espansione incontrollata, la temporaneità, la verticalità, la virtualità, con la cancellazione di qualsiasi carattere identitario. Rispecchiano quella che Koolhaas chiama Città Generica[4].
Oggi gli spazi pubblici vengono sostituiti dagli spazi privati ad uso pubblico: gli spazi di consumo.
I centri commerciali si differenziano dagli spazi pubblici tradizionali nel fatto che essi erano spazi aperti in cui si affrontavano temi politici, mentre lo shopping mall è uno spazio chiuso in cui l'interesse è il consumo ed il pass è la nostra carta di credito.
Inoltre, nella nuova contemporaneità globalizzata, il centro commerciale rappresenta un luogo familiare, che si può trovare a Bastia Umbra come a Milano. Una sorta di "casa comune" a tutto il mondo, un marchio di non riconoscibilità locale e di omologazione collettiva, che può anche darci un senso di gratificazione dato dall’acquisto. Insomma, il centro commerciale a Singapore ci è familiare tanto quanto quello in Italia, anche nella sproporzione delle sue dimensioni.
I centri commerciali e più in generale le aree industriali vengono concepiti come blocchi a sé stanti, scollegati tra loro e con il contesto, raggiungibili solo a bordo di un’automobile. Mezzo che ha permesso di “saltare” comodamente lo spazio tra i volumi, risparmiando la fatica di progettarlo.
Peccato che a volte le persone a volte non si arrendono e mettono a rischio la propria vita tentando di raggiungere ugualmente la destinazione anche con mezzi alternativi (si pensi a via Armando Diaz, che collega Santa Maria degli Angeli alla zona industriale, dove c’è il “Bella Napoli”).
Questa tendenza all'omologazione e alla prevalenza degli spazi di consumo riflette una direzione economica che ha privilegiato la crescita su larga scala e l'affermazione di modelli monopolistici, a discapito della diversità e della specificità locale. L'attuale paradigma sembra aver relegato in secondo piano la capacità di rispondere ai bisogni primari dell'individuo, come il contatto con la natura, il benessere collettivo e la socialità, proponendo spesso soluzioni mediate dal mercato e dal consumo (si pensi ai centri di ascolto per risolvere la solitudine o ai servizi "green" inseriti nelle logiche commerciali). Si assiste a una progressiva artificializzazione delle risposte ai bisogni umani essenziali, che diventano accessibili tramite un costo, generando una dipendenza da sistemi, tecnologie e servizi spesso distanti dalle comunità.
In questo contesto, l'investimento immobiliare e i guadagni delle grandi catene di vendita hanno spesso oscurato il valore delle microeconomie locali, quelle che storicamente hanno garantito un tessuto lavorativo diffuso e relazionale. Il rischio è che la costante ricerca del "progresso" e di soluzioni mediate, pur con intenti positivi come la tutela ambientale, finisca per allontanarci da un vero benessere sostenibile, che potrebbe invece derivare da un ripensamento delle nostre abitudini di consumo e produzione.
Una prospettiva alternativa potrebbe orientarsi verso un passo indietro critico, favorendo lo sviluppo di microeconomie di paese, dove le comunità possano ambire a una maggiore autonomia nella produzione e nel consumo[5]. Questo non implica un isolamento, ma una maggiore enfasi sulla collaborazione, sulla solidarietà e sulla riduzione degli spostamenti e dei consumi non essenziali. Un tale approccio, basato sulla riattivazione di economie locali e di prossimità, potrebbe rappresentare una vera transizione ecologica e sociale, creando nuove opportunità lavorative e rafforzando i legami comunitari, in netto contrasto con la disgregazione osservata nel modello urbano attuale.
In questo scenario, la pianificazione urbanistico-commerciale e la normativa ad essa collegata assumono un ruolo fondamentale. Non più solo strumenti per la regolazione del singolo progetto edilizio o per il reperimento di standard, ma come mezzi capaci di indirizzare i processi di sviluppo urbano verso una visione più integrata e sostenibile della città e dei suoi servizi. Una visione che dia priorità alla valorizzazione dello spazio pubblico di qualità come base della vita collettiva e alla rigenerazione delle economie locali, promuovendo una nuova idea di città più bella, ricca, vivibile, a misura d'uomo.
[1] Sartore M., Le trasformazioni della città e la riscoperta del locale. Spazi, attori e opportunità per la
partecipazione. In: Partecipazione e politiche sociali in Umbria. Strumenti tradizionali e tendenze innovative, cit., p. 109.
[2] Ivi, p. 109-110.
[3] Mele V. (2011),Georg Simmel: la metropolizzazione della vita sociale. In: Lezioni di sociologia urbana,
a cura di Nuvolati G.. Bologna: Il Mulino, p. 97.
[4] Koolhas R.(2006), Junkspace, Macerata, Quodlibet.
[5] https://www.confcommerciovicenza.info/attualita/commercio-e-turismo-risorse-strategiche-delle-citta