[Premessa: Ciò che è scritto rappresenta una riflessione personale, frutto di un percorso di formazione nel campo dell’urbanistica e della partecipazione. Il tema è lo spazio pubblico. L’intento è quello di aprire un dibattito e una discussione sul modello di città a cui si aspira, di cui si parla troppo poco. Alcuni contenuti sono tratti dalla mia tesi di Master in progettazione e gestione di politiche e processi partecipativi, dal titolo “Società e spazio pubblico tra funzionalismo e complessità”, Relatore Mariano Sartore, Correlatrice Chiara Mazzoleni]
Cos’è spazio pubblico?
È uno spazio “che può essere visto e percepito da tutti (…) e anche ciò che è comune a tutti”[1]. È nello spazio pubblico che avvengono i fatti della “sfera pubblica”, con la quale vi è una stretta relazione.
Spazi pubblici sono, ad esempio, la strada, la piazza, il parco.
Se banalmente cerchiamo la definizione di politica su Wikipedia, dice:
“La prima definizione di "politica" risale ad Aristotele ed è legata all'etimologia del termine; secondo il filosofo, "politica" significava l'amministrazione della polis per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano”.
È chiaro allora quanto lo spazio pubblico abbia a che fare con la politica.
Se vogliamo dirla tutta, lo spazio pubblico ha a che fare anche con l’economia, parola che deriva da οἶκος «casa» e -νομία «legge»: letteralmente l’«amministrazione della casa». Se lo spazio pubblico è la “casa” della sfera pubblica, l’amministrazione delle economie pubbliche non può prescindere da esso. Infatti, da uno spazio pubblico di qualità deriva, nel tempo, una vita di qualità con ricadute positive anche sull’economia.
Troppo spesso oggi il progetto dello spazio pubblico è escluso dalle economie delle città.
Perché?
Anzitutto perché lo spazio pubblico non genera un profitto a breve termine in un contesto in cui ormai tutto si sviluppa secondo logiche di mercato. Ma vedremo meglio questo aspetto nei prossimi post.
Un’altra questione cruciale riguarda il fatto che molte amministrazioni pubbliche, specie quelle più piccole, dispongono di risorse economiche e umane estremamente limitate, tanto da non potersi nemmeno permettere di avviare una progettazione.
In questo senso è molto interessante la proposta dell’architetto Bruno Mario Broccolo di creare un fondo di anticipazione regionale per consentire ai Comuni di progettare in anticipo e di avere un “parco progetti” spendibile nel momento in cui si presenta un’opportunità di finanziamento pubblico o privato[2]. Troppo spesso, infatti, ci si ritrova con risorse disponibili, ma senza sapere come investirle, sperperando inutilmente risorse e perdendo opportunità.
In merito a questo, ho l’impressione che a livello politico manchi anzitutto un piano, un’idea di città, da cui possa discendere un progetto. Avere questo piano permetterebbe di impiegare eventuali risorse per bisogni reali, risparmiando denaro pubblico e riducendo il rischio di investimenti errati, mossi solo dalla fretta di “spendere il fondo”. Inseguire fondi straordinari senza una visione rischia di generare interventi inutili o che stravolgono i luoghi, senza l’effettivo riscontro di una necessità e senza qualità.
Penso, ad esempio, ai fondi del PNRR: non si tratta interamente di sovvenzioni a fondo perduto, ma in gran parte di prestiti che graveranno sulle generazioni future. In questo contesto, sebbene la logica dell’assistenzialismo tramite bonus stia diventando ormai una prassi consolidata, sarebbe molto più strategico - e responsabile - dotarsi di un piano strutturale: una visione politica, economica e urbanistica che definisca un'idea di città.
Una città che non consumi solo risorse, ma che le generi; che si fondi su dinamiche interne capaci di autoalimentare sviluppo e benessere, riducendo sprechi e inefficienze.
In quest’ottica, il vero obiettivo dovrebbe essere l’empowerment: non semplicemente “aiutare” le persone, ma metterle nelle condizioni di contribuire attivamente alla costruzione della città in cui vivono, abitano, lavorano.
Ma da dove partire per costruire questo piano?
L’atteggiamento spesso adottato dalla politica (basti vedere le campagne elettorali) è centrato sulla critica delle questioni urbane e sulla risoluzione dei problemi attraverso interventi tecnici e progettuali calati dall’alto, che guardano ai luoghi secondo una logica funzionale e normativa, spesso guidata da giudizi di degrado o inadeguatezza.
In questo quadro, il tecnico si pone come detentore della competenza e della visione, assumendo che una buona progettazione dello spazio sia di per sé sufficiente a “correggere” le criticità urbane. Si tratta di un’idea di città come strumento da ottimizzare, più che come organismo complesso e sociale da comprendere, valorizzare e trasformare con azioni multidisciplinari e sistemiche.
Ho impresso il ricordo di una lezione tenuta dal mio prof, quando ci portò a fare un workshop di qualche giorno in una località umbra e ci chiese di fare un sopralluogo fotografico, in cui avremmo dovuto rappresentare lo stato dei fatti. In aula noi studenti iniziammo a mostrare le nostre foto, con l’intenzione di mostrare i problemi del luogo: incuria del verde, delle strade, situazioni brutte, bruttissime...
Il prof si arrabbiava, non era soddisfatto del lavoro. Ci disse che eravamo superbi, presuntuosi: eravamo stati in un luogo partendo dal pregiudizio che esso fosse costituito da un mucchio di problemi e noi ci ritenevamo detentori della loro risoluzione definitiva.
Dopo di noi, chiamò uno studente più grande a mostrarci le sue foto. La lettura di Marco fu molto diversa dalla nostra: non elencava problemi, non giudicava, ma mostrava solo ciò che vedeva. Nelle sue foto, non c’era l’intenzione di tacciare come problematico un luogo, ma lo raccontava. I suoi scatti mostravano un’indagine di utilizzo degli spazi, anche di quelli marginali. Le tracce del passaggio delle persone svelavano il modo in cui usavano quegli spazi. Tentativi di abbellimento degli esterni delle case che si affacciavano sulla strada che, anche se a volte in stile un po’ kitsch (come i sette nani tra i fiorellini), dimostravano il desiderio di rendere bello uno spazio. Quel reportage fotografico riconosceva la bellezza in piccole intenzioni, in segni che fino ad allora avevo trascurato o addirittura avevo deriso.
L’esempio dato da Marco fu per me l’inizio di un nuovo modo di leggere lo spazio.
Da ciò, credo che per iniziare a delineare un’idea di città si debba partire da una ricognizione non pregiudicante dei luoghi e del modo in cui le persone li utilizzano, partendo dagli indizi di fruizione dello spazio, individuando i bisogni e contemporaneamente le risorse presenti.
L’urbanista non può arrogarsi il ruolo di unico risolutore, perché la maggior parte delle questioni urbane non si risolvono solo con la progettazione spaziale, ma richiedono un’azione sistemica, cioè che coinvolga più livelli (urbanistica, politiche pubbliche, mobilità, politiche sociali, economia eccetera).
Perché, come già detto nel primo post, lo spazio pubblico è fatto di spazio fisico e anime, ed è questa ambivalenza che genera una complessità non riducibile a semplificazioni o modelli.
Questa azione sistemica non si improvvisa: si pianifica, si progetta, si sperimenta, si modifica.
È complessa, flessibile, aperta, condivisa.
[1] Bianchetti C. (2008), Urbanistica e sfera pubblica, Roma, Donzelli, pp. 8-9.
[2] https://bmbarch.wordpress.com/?fbclid=IwY2xjawJae81leHRuA2FlbQIxMQABHckPBYPfny8rpL4I7GsgKSVKMwNMcl5RNEuLZb-DTl459l2LmT7Q-T4mFg_aem_kh0708aQYZncqdGICY9klQ