[Premessa: Il presente testo fa parte di una serie di sette post sul tema dello spazio pubblico. Ciò che è scritto rappresenta una riflessione personale, frutto di un percorso di formazione nel campo dell’urbanistica e della partecipazione. L’intento è quello di aprire un dibattito e una discussione sul modello di città a cui si aspira, di cui si parla troppo poco.
Ringrazio il professore Mariano Sartore per aver contribuito al lavoro iniziato dai miei genitori: conservare un approccio critico, oggettivo e libero da qualsiasi condizionamento ideologico predominante.]
Tra le tante piaghe che gravano sull’uomo moderno ce n’è sicuramente una: aver rinunciato alla bellezza come parametro e fine di tutte le cose.
Parlo di una bellezza universale, che mette tutti d’accordo.
Io sono un architetto, mi occupo di urbanistica e nel mio lavoro penso alla città. Penso alla città molto spesso in realtà…anche quando stacco dal lavoro: penso alla città quando esco con mia figlia a giocare fuori, quando impara ad andare in bicicletta, quando le dico di stare attenta alle macchine, quando la accompagno in piazza a correre, ai giardini a giocare, quando vado al lavoro in macchina, quando entro in chiesa, quando passo ad un bar. Penso alla città quando la sera le luci si spengono e non esce nessuno, quando attraverso la campagna, quando accompagno mia figlia a scuola. Penso alla città quando vedo i ragazzi uscire la sera, i bambini sul ciglio di una strada su quella panchina rimasta tra i parcheggi. Penso alla città quando un’attività chiude, quando un nuovo centro commerciale apre, quando cammino con il passeggino per strada.
La bellezza è ciò che cerco, dall’aria fresca della mattina fino alla luna e le stelle della sera nel cielo. La cerco perché è ciò che mi muove. Quando penso alla città, quando cerco la bellezza, mi chiedo cosa abbia a che fare l’una con l’altra ed entrambe con la mia vita, con quello che faccio.
Nel mio percorso di studi c’è stato un momento di disorientamento, perché in fondo in quella facoltà ci ero capitata un po’ per esclusione delle altre. Non capivo bene cosa avessero a che fare con me tutte quelle formule e quei volumi, quegli spazi. L’ho capito un giorno, quando il professore iniziò la prima lezione del corso parlandomi dell’esistenza di un’ambivalenza nello spazio: l’ambivalenza che c’è tra ciò che può essere calcolato con la matematica, schematizzato, organizzato, e ciò che sfugge a tutte queste logiche. C’è una dimensione che non si riesce a incasellare, quella che vive nello spazio progettato e che porta con sé una certa entropia. È la dimensione sociale, che è viva, è energia, è movimento, è sentimento, non è astratta, è concreta[1]. Quell’energia siamo noi che usiamo lo spazio e che lo trasformiamo. Con i nostri modi di essere, le nostre molteplicità, le nostre vite.
Per questo il progetto dello spazio è importante, perché esso può accogliere la vitalità o può limitarla, anche sopprimerla. Quel professore mi insegnò cosa è spazio pubblico e fu capace di indicarmi dove, in quel frangente, si nasconde la bellezza. In quella vitalità, nelle sue espressioni più semplici, in quell’energia vitale che l’urbanista può contribuire a rilanciare o a sopprimere.
Questa scoperta, forse banale, ha aperto per me una strada imprevista, accendendo un fuoco che, come poche altre cose, ancora arde e non si spegne, e mi ha condotto fin dove sto andando, dando un senso pratico e concreto al mio percorso e alla mia ricerca. Sarò sempre grata e riconoscente al mio professore, l’urbanista Mariano Sartore, per avermi indicato la via, per avermi insegnato come il mio lavoro può essere uno strumento per la ricerca della bellezza. Una bellezza per me, una bellezza per tutti.
Quello spazio ambivalente che tanto prende la mia mente, le mie giornate non è altro che spazio pubblico, lo spazio di tutti. Perciò ho pensato che parlare dello spazio pubblico, quindi di città, in modo semplice e comprensibile da tutti, possa essere un modo per tornare a parlare di bellezza: una bellezza per tutti, fatta dall’uomo.
Quando si tornerà a progettare lo spazio pubblico facendo architettura e trattandolo come spazio sociale, si ricomincerà a fare un’operazione anche culturale, ri-educando a desiderare per sé e per tutti la bellezza, trovandola nella “cosa pubblica”, in ciò che interessa tutti, in senso aristotelico nella “politica”.
Non sarà la soluzione alle questioni contemporanee, ma da qualche parte si dovrà pur partire.
[1] Si veda il discorso di Kenneth Keniston al MIT, “La crisi dell’algoritmo degli ingegneri”, in cui parla di due “regni”: quello dei “problemi” che possono essere risolti dall’ingegnere tramite l’applicazione di criteri scientifici, e “il resto della vita”, i valori o la società, che sono esclusi dai calcoli in quanto non riducibili a parametri matematici.