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04. QUANDO LA PIAZZA CAMBIAVA IL MONDO

2025-05-17 16:08

Anna Falcinelli

Urbanistica, partecipazione, spazio pubblico, danilo dolci, aldo capitini, cultura, educazione,

04. QUANDO LA PIAZZA CAMBIAVA IL MONDO

In Italia ci sono state esperienze di partecipazione collettiva basate sulla nonviolenza, capaci di azioni pubbliche trasformative.

[Premessa: Ciò che è scritto rappresenta una riflessione personale, frutto di un percorso di formazione nel campo dell’urbanistica e della partecipazione. Il tema è lo spazio pubblico. L’intento è quello di aprire un dibattito e una discussione sul modello di città a cui si aspira, di cui si parla troppo poco. Alcuni contenuti sono tratti dalla mia tesi di Master in progettazione e gestione di politiche e processi partecipativi, dal titolo “Società e spazio pubblico tra funzionalismo e complessità”, Relatore Mariano Sartore, Correlatrice Chiara Mazzoleni]

 

 

Il Novecento è stato il “secolo della piazza”. Un secolo attraversato da rivoluzioni, proteste, conquiste sociali e mobilitazioni popolari. Le persone scendevano in strada per farsi sentire, per cambiare le cose. Dalle grandi manifestazioni operaie ai cortei del ’68, lo spazio pubblico è diventato il teatro della partecipazione, della lotta e dell’immaginazione politica.

 

In molti casi, pur nascendo da istanze legittime, le mobilitazioni pubbliche del Novecento hanno assunto forme conflittuali, sfociando talvolta nella violenza. 
In parallelo si sono sviluppate esperienze di partecipazione collettiva basate sulla nonviolenza, capaci di esercitare pressione politica attraverso l’azione pubblica e la costruzione di alternative concrete.

 

In Italia non sono mancate iniziative di questo tipo: ne approfondiamo un paio in modo non esaustivo, spiegando come esse rappresentarono non il culmine, ma tappe di percorsi educativi costruiti con pazienza e continuità nel tempo, radicati nel territorio.

 

La prima esperienza trattata è quella di Danilo Dolci.
Siamo negli anni ‘50/’60 del ‘900 quando, reduce dalla missione a Nomadelfia, Dolci si trasferì dal “continente” al “paese più misero che avesse mai visto”, a Trappeto (Palermo), con l'obiettivo di trovare strategie per intervenire in un contesto dalle condizioni di vita inaccettabili.
Tutte le operazioni fatte da Dolci partivano da un presupposto iniziale: la necessità di istruire e educare la popolazione locale più semplice, offrendole la possibilità di divenire consapevole non solo dei problemi, ma anche delle possibili risorse, al fine di poter migliorare le proprie condizioni di vita compattando le forze sociali (ne abbiamo già parlato in INVITO APERTO, al link: https://interstizi.it/blog-detail/post/261348/invito-aperto ). Dolci praticava il suo metodo educativo sostenuto da molti intellettuali del tempo, che partecipavano e lo supportavano nelle diverse importanti iniziative che portò avanti per spingere la politica a cambiare rotta nella gestione del territorio.

 

Dolci e i siciliani organizzarono diverse manifestazioni pubbliche: spiccano i cortei contro la mafia, le occupazioni simboliche e nonviolente di spazi pubblici, le marce per la promozione del lavoro e quelle per richiedere la costruzione della diga sul fiume Jato, poi ottenuta.
In questo modo il popolo denunciava specifiche ingiustizie e proponeva alternative concrete, sempre nel principio della nonviolenza attiva. Allora lo spazio pubblico si trasformò in un'arena dirompente di pedagogia sociale e di pressione politica, un luogo dove le voci marginalizzate potevano finalmente risuonare e dove si gettavano le basi per una coscienza collettiva orientata al cambiamento.

 

Una delle forme più note di protesta furono gli "scioperi alla rovescia": centinaia di disoccupati riparavano strade o bonificavano aree abbandonate senza autorizzazione, potente forma di contestazione contro l'inerzia dello Stato. La reazione ostile delle autorità locali, che considerarono queste azioni illegali e una sfida al proprio potere, si manifestò con arresti, denunce e repressione.
Pensiamo al coraggio di quel popolo semplice, spesso analfabeta, che ha riconosciuto in Dolci una possibilità di riscatto. Si è fidato, si è aperto al dialogo, abbandonando la logica della sopravvivenza, per lavorare insieme a un obiettivo comune. Ha rischiato in prima persona, affrontando conseguenze anche dure, pur di costruire un futuro migliore per tutti. Un popolo che, grazie a un percorso educativo lento e profondo, ha costruito una coscienza civile che forse oggi, in molti casi, abbiamo smarrito.
Questa iniziativa solleva una riflessione cruciale: il "sostituirsi" dei cittadini all'amministrazione pubblica non mirava a diventare una prassi (come talvolta accade oggi), ma era un atto provocatorio per scuotere lo Stato e indurlo ad agire, sollecitandone l’azione pubblica. 
Se infatti sempre più gruppi di cittadini si arrogano mansioni che spetterebbero allo Stato, viene spontaneo chiedersi quale sia allora il ruolo delle istituzioni.

 

Una seconda esperienza utile da ricordare, a noi geograficamente molto vicina, è quella di Aldo Capitini.
Accanto al suo fondamentale contributo nell'introduzione della nonviolenza come valore cardine della mobilitazione collettiva, culminato nella storica Marcia della Pace Perugia-Assisi del 1961, Capitini fu l'ideatore dei COS (Centri di Orientamento Sociale) e dei COR (Centri di Orientamento Religioso). 
In una fase post bellica complicata, Capitini voleva contribuire a ricostruire una coscienza di bene comune, secondo ideali diversi da quelli del conflitto, ripartendo dalle basi culturali, sociali e spirituali che evidentemente nella guerra erano venute meno. 
I COS e i COR erano assemblee popolari aperte a tutti, anche con la presenza di figure intellettuali di rilievo, in cui confrontarsi sulle questioni pubbliche (senza sostituirsi al lavoro dei partiti) e sulle questioni spirituali (per aprire un dialogo sulla pace e sulla libertà religiosa). 
Anche qui una nota personale: oggi purtroppo la Marcia della Pace, con il suo svolgimento ripetuto e oramai standardizzato, sembra aver perso gran parte del suo significato originario, con il rischio di ridurre “la pace” a un concetto utopistico e astratto. Al contempo, la società civile appare sempre più frammentata, spesso spinta al conflitto interno, divisa invece che coesa (persino sul tema della pace!), vanificando il raggiungimento di qualsiasi obbiettivo.

 

Ritengo particolarmente interessante la tensione educativa e culturale nelle esperienze descritte, perché ci indica che quello è il punto di partenza iniziale per qualsiasi cambiamento. L'obbiettivo del percorso educativo è infatti preparare la base per una vera conversione, aiutando le persone a passare dall’“io” al “noi”, facendo emergere cosa c'è in comune piuttosto che fermarsi alle differenze, unendo piuttosto che dividere. 
Questa apertura culturale (pratica o teorica) ha molto a che fare anche con la riscoperta della bellezza.

 

In questo, anche il progetto sistemico dello spazio pubblico ha un ruolo importante, perché esso è il collettore fisico di una società più concreta, unita, solidale. 

 

Tale prospettiva ci invita a riflettere sull'importanza di investire in percorsi educativi che considerino la capacità critica, la partecipazione attiva e la consapevolezza delle questioni comuni un prerequisito per una mobilitazione pubblica autenticamente trasformativa. In questo senso è utile l'uso di pratiche partecipative nella fase iniziale della progettazione urbanistica, affinché il prodotto tecnico finale non sia semplicemente “calato dall'alto”, ma sia frutto di un processo di costruzione della conoscenza condiviso, consentendo alle persone di appropriarsi dell'idea di città proposta.
Senza una solida base di consapevolezza e di condivisione di intenti, il rischio è che le manifestazioni pubbliche perdano senso, siano facilmente strumentalizzate e si facciano portavoce della propaganda, svuotate della loro carica propulsiva e della reale capacità di generare un cambiamento positivo e significativo.


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